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Convegno ecclesiale: l’intervento conclusivo dell’Arcivescovo

La seconda e ultima giornata dell’Incontro residenziale del Convegno ecclesiale diocesano si è conclusa con la recita dei Vespri e la riflessione del nostro Arcivescovo, Francesco Alfano.  “Quante domande portiamo nel cuore in questo momento, quante attese e incertezze, ma avvertiamo forte il bisogno di stare insieme per il confronto e la ricerca comune. È sempre così quando ci mettiamo in ascolto di Dio”, ha esordito il presule. “A questo convegno – ha aggiunto – siamo arrivati con tanto entusiasmo e gioia per vivere il dono della comunione”. Sì, si tratta di un dono, ma “dobbiamo condividerlo”. Il nostro pastore, facendo riferimento alle tante proposte e anche alle difficoltà emerse durante la due giorni, ha assicurato che il Consiglio pastorale continuerà a lavorare “per individuare delle linee comuni che, pertanto, non saranno calate dall’alto, ma saranno il frutto del contributo di tutti”. Certamente, “il secondo anno, che viviamo insieme, deve servire per capire meglio il mezzo delle Unità pastorali”. Mons. Alfano ha anche ricordato che l’ultima tappa del Convegno sarà la celebrazione della messa del 23 novembre, nella cattedrale di Sorrento, in occasione della festa di Cristo Re dell’Universo, a conclusione dell’Anno liturgico.
L’Arcivescovo ha, quindi, preso spunto dalla lettera di San Paolo a Timoteo, letta durante i Vespri, per la sua riflessione. La lettera di Paolo inizia con un “Figlio mio”. “C’è una relazione profonda, un’amicizia tra i due. Questo ci deve far riflettere – ha osservato il presule -: chi ha responsabilità nella Chiesa? Non i capi, perché c’è un solo capo: Gesù. Ma il Signore vuole che ci siano relazioni tra di noi. Allora, i responsabili della comunità devono essere esperti di relazioni”. Di qui l’invito: “Viviamo così la responsabilità”. Si tratta “di ascoltare quello che c’è nel cuore l’uno dell’altro. Non è solo un comunicare iniziative, ma parlare di me. È quello che ha fatto Gesù con il suo insegnamento sapienziale”. Perciò, “non ci sia più inganno, maldicenza, pregiudizio. Prendiamo sul serio gli altri”. Ovviamente, questo è possibile, come ci mostra Paolo, “se conserviamo un rapporto forte con il Signore. Solo così possiamo intessere relazioni positive con i compagni che il Signore ha posto al nostro fianco”.
Paolo non si sente solo nella relazione con Timoteo: “Si sente membro di una comunità più grande, la Chiesa”. La Chiesa, infatti, “è molto più ampia di noi. Certe volte, noi preti, religiosi, laici ci convinciamo che siamo noi la Chiesa. Invece no, ci sono tanti altri. E anche con loro faremo festa nel giorno in cui il Signore tornerà a manifestarsi. Non dobbiamo mai perdere di vista la meta: è la manifestazione di dio che noi attendiamo”. In questo senso, “anche la riforma della Curia o il ripensamento delle Unità pastorali non sono il fine. Oggi il Signore vuole che il suo disegno si compia attraverso di noi”.
Per Paolo, però, “non è filato tutto liscio, ha vissuto momenti terribili, la prova, il tribunale, l’abbandono da parte degli amici”. Eppure, “non punta il dito e non va in depressione”. No, quando resta solo, “l’arma di Paolo è il perdono”. Questo deve essere un esempio anche quando “restiamo soli come parrocchie o come singoli”. Tale atteggiamento non ci fa essere dei “vigliacchi”, piuttosto “discepoli del Signore”. “La fede – è stata l’esortazione del nostro pastore – deve essere la nostra vita. Nella prova dobbiamo dire: ‘Il Signore mi è stato vicino’. E questo lo mostreremo con la nostra vita e attraverso il servizio. Anzi, il momento di prova, come dimostra la vicenda di San Paolo, serve per annunciare il Vangelo a tutte le genti”.

di Gigliola ALFARO