Mons. Alfano: da un anno con noi

È trascorso un anno da quando mons. Francesco Alfano ha fatto il suo ingresso ufficiale in diocesi come nostro pastore. Era sabato 28 aprile 2012. È tempo, quindi, di fare un bilancio di questo primo anno come arcivescovo di Sorrento-Castellammare di Stabia.
 
Eccellenza, come ha vissuto un anno fa il suo arrivo qui?
“Sono entrato un anno fa in questa Chiesa  con il cuore colmo di gratitudine a Dio che mi ha chiamato a essere ministro nella sua Chiesa, ma anche con  quel senso di inadeguatezza e povertà, che mi ha sempre accompagnato, di essere un povero strumento nelle mani di Dio. Così sono entrato dicendo un sì forte a Dio, non nascondendo la mia sofferenza per il distacco dalla Chiesa che stavo imparando ad amare e servire, quella di Sant’Angelo dei Lombardi-Conza-Nusco-Bisaccia.  Sono arrivato anche pieno di trepidazione. Tra l’annuncio della mia nomina e il mio ingresso, ho ricevuto segnali di forti attese. Era una Chiesa che s’attendeva molto dal nuovo vescovo, anche per le sfide da raccogliere dopo la recente conclusione del Sinodo, e per i tanti problemi a livello sociale del nostro territorio”.
 
Da subito è stato grande il feeling tra lei e il popolo di Dio…
“Qui ho fatto un’esperienza travolgente, quasi fino a perdere il respiro. Persone di ogni tipo sentono non solo il bisogno di avvicinarsi, ma anche di aprire il cuore perché vedono nel vescovo il segno della vicinanza di Dio. Mi sono reso conto sin da subito che non solo dell’aumento della responsabilità dinanzi a un popolo così esigente e a sfide così urgenti, ma anche della necessità di avviare un cammino un po’più profondo, da parte mia, di conoscenza e, da parte della comunità, di un’intesa per collaborare insieme. Ed è quello che in questo primo anno stiamo cercando di fare soprattutto con l’incontro con le comunità, le parrocchie, i gruppi, le associazioni, le persone. Le mie giornate sono piene di incontri”.
 
In questa necessità di conoscenza più approfondita si inseriscono le visite alle Unità pastorali…
“Insieme con il consiglio pastorale diocesano abbiamo maturato l’idea della visita alle Unità pastorali che porteremo a termine a Pentecoste. Sono contento di questo prima passo del vescovo con il suo popolo che è una conoscenza un poco più profonda. Certo è stato ed è importante incontrare le comunità parrocchiali non solo nella loro singolarità ma come Unità pastorali, così come sono state pensate nell’episcopato precedente e come sono state sancite dal sinodo. Unità pastorali che nello stesso territorio cercano, tra mille difficoltà ,di camminare insieme proponendo non solo delle iniziative ma una testimonianza evangelica comune. Posso dire che attraverso questa esperienza, che io considero come un pellegrinaggio spirituale e pastorale, sono dentro la storia di questa comunità”.
 
Quali sono le maggiori sfide per la nostra Chiesa?
“Questa Chiesa viene da una storia ricca, articolata e difficile: due diocesi, con storie e sensibilità particolari, sono state unite, amalgamandosi. Ora tutto questo attende di diventare progetto pastorale. Certo c’è il Sinodo, che ha sancito tutto ciò, ma il Sinodo si è concluso alla vigilia della fine dell’episcopato; quindi è arrivato il momento di tradurre le scelte fondamentali del Sinodo in stile pastorale ordinario che necessariamente dovrà essere uno stile missionario, aperto a tutte le nuove istanze, capace di dialogare e far sue, come dice Papa Francesco, le periferie soprattutto quelle esistenziali, culturali, le nuove generazioni e le nuove famiglie che vivono nella frammentazione, nella fatica quotidiana, nella ricerca di punti di riferimento. Ecco, penso ad un progetto in questo senso, non solo una programmazione, pur necessaria. Avere, dunque, degli obiettivi comuni condivisi da tutti i cristiani, da tutte le comunità e uno stile che, nel rispetto delle diversità, si caratterizzi come uno stile di accompagnamento, di vicinanza. Non solo il pastore, vescovo e preti, ma tutti i cristiani devono far avvertire questo odore di pecore, come ha detto il Papa incitando innanzitutto i pastori a essere una sola cosa con il gregge. Noi cristiani in questo territorio dobbiamo essere una sola cosa gli uni con gli altri”.
 
A livello sociale quali sono i maggiori problemi?
“Ci sono tante problematiche a livello sociale, solitudini, povertà materiali che stanno aumentando a dismisura, ma anche problematiche interiori, difficoltà di relazioni, una cultura che in certi luoghi spaventosamente si presenta come quella del più forte, del furbo o addirittura di chi impone leggi che sono contrarie a ogni convivenza civile. Il cuore sanguina quando penso a due ragazzi di cui mi hanno parlato, negli incontri con le Unità pastorali, alcune catechiste che li avevano seguiti nel cammino di preparazione ai sacramenti. Due ragazzi che ora sono in carcere, condannati all’ergastolo. Li ho accolti nel mio cuore e spero di andarli a trovare presto come segno e simbolo di una gioventù in preda al disagio che colpisce tanti, giovani e adulti. Nel nostro territorio c’è un altro gravissimo problema: l’usura. Un mondo dove il male sembra aver distrutto l’immagine di Dio e la dignità dell’essere umano. Questo peso mi schiaccerebbe se fosse solo sulle mie spalle, ma io non sono solo: come dissi nella prima celebrazione nella concattedrale di Castellammare io non sono il messia, non devo essere visto né presentarmi come tale, ma insieme noi seguiamo il Messia. Vescovo e popolo ricevono la benedizione del Signore e la benedizione è vita in abbondanza che non possiamo tenere per noi”.
 
C’è il pericolo per le comunità cristiane di chiudersi di fronte a tutte queste difficoltà?
“Sì, anche se abbiamo tante comunità comunità vivaci e ricche di proposte e vocazioni, anche nel nostro ambiente si registra il rischio di chiuderci in noi stessi, al sicuro nel nostro ovile. La custodia è importante per sperimentare la presenza di Dio, che ci sceglie, ci chiama e ci manda, ma, poi, dobbiamo sporcarci le mani, dobbiamo vincere quello che Papa Francesco ha chiamato, per noi guide del gregge, il rischio di una mondanità spirituale. Nell’omelia del Giovedì Santo ho parlato di una certa aristocrazia spirituale o pastorale che ci potrebbe tenere a distanza dagli altri, ma è un rischio da evitare perché non possiamo essere contenti finché uno solo dei nostri fratelli è disperato. E qui la disperazione sale al cielo come la bellezza della natura: vanno di pari passo. A conclusione del primo anno qui, condivido questo grido con tanti e lo dico ad alta voce, perché il pastore deve anche gridare a squarciagola come dice Isaia”.
 
Com’è il suo rapporto con i sacerdoti?
“Il dialogo tra vescovo e preti è intenso, fecondo e mai scontato perché si tratta di ascoltarsi, conoscersi e cogliere le specificità l’uno dell’altro e di trovare le modalità comuni nel rispetto di stili e spiritualità diverse. I preti con il vescovo devono scoprire le vie che Dio chiede di percorrere attraverso il suo Spirito. Il modello da seguire è il Signore, cercando insieme quello che lo Spirito dice alla nostra Chiesa. Cosa ho trovato nel clero? Tanto lavoro, tanta passione, tanta creatività, tanta generosità e anche tanta intelligenza pastorale nel cercare vie nuove, insieme con tanta fatica, lo scoraggiamento,  la tentazione di chiudersi lì dove è stato più difficile collaborare, intendersi, testimoniare insieme l’unico Vangelo. Ho trovato anche delle ferite, a vari livelli, che ci ricordano la nostra umanità. Ferite che però chiamano in causa la nostra collegialità. I preti sono costituiti come collegio che a fianco del vescovo devono testimoniare il dono dell’unità. È un compito questo da portare avanti insieme, che vive anche momenti di scoraggiamento e a volte di tensione, ma che ci deve vedere sempre più chiamati all’ascolto, al dialogo, alla ricerca della comunione. Posso dire che questo clero, non solo per i numeri alti, anche delle vocazioni, ma per la storia, è una benedizione di Dio, che dobbiamo cogliere insieme e condividere di più. Benedizione che si deve trasformare in legame forte, non solo all’interno di gruppi, ma come collegio presbiterale. Credo che siamo chiamati a fare molti passi su questo, anche se non è facile né immediato. Papa Francesco ce lo ricorda con il suo stile conciliare e sinodale, che non solo si fa vicino alla gente ma che diventa segno di unità nella misura in cui è stile di collaborazione e di corresponsabilità. Dobbiamo abbandonare la mentalità della delega, della deresponsabilizzazione o della cupola. Sì, quella mentalità piramidale che vede, da un lato, il più forte, il più potente, e, dall’altro, quelli che cercano di non vivere da sudditi ma si contrappongono. Questa è una mentalità che noi combattiamo perché è la mentalità della mafia o della camorra, a cui siamo completamente contrari. Dobbiamo stare attenti a che questa mentalità non entri sottilmente per il potere che siamo chiamati a gestire. C’è un potere che dobbiamo gestire come vescovo e preti, ma è il potere di dare la vita, il potere di amare, il potere del servizio che richiede la fiducia reciproca e la comunione anche affettiva. Su questo ho trovato tante premesse su cui possiamo costruire con l’aiuto di Dio”.
 
Quali sono le prospettive per il suo secondo anno come pastore di questa diocesi?
“A livello pastorale come Chiesa cercheremo di raccogliere il frutto di questo primo percorso con il convegno ecclesiale di ottobre. Mi aspetto allora uno sforzo maggiore nel camminare insieme soprattutto con l’attenzione alle comunità più piccole o più deboli e una maggiore apertura alla presenza in diocesi delle aggregazioni laicali, che ci sono ma che attendono di essere meglio inserite nella comunità cristiana. Serve anche un’attenzione maggiore alla vita consacrata nella nostra Chiesa locale, cogliendo questo come un carisma prezioso per quel cammino di santità che si fa lode a Dio e servizio ai fratelli. Non sottovalutiamo l’importanza dei monasteri che ci sono in diocesi, ma che mi pare non sentiamo ancora profondamente come nostri.  Infine, è importante anche un dialogo stretto, una collaborazione o, quando è necessario, una coscienza critica nei confronti delle istituzioni civili per la ricostruzione sociale, morale, economica e politica di questa terra che può essere anche da questo punto di vista un punto di riferimento persino un faro, tanto è bella e ricca di risorse”.

 

di Gigliola ALFARO