A Bonea il ricordo della SHOAH: per non dimenticare

Nella chiesa parrocchiale di Bonea, la Professoressa Miriam Rebhun ha presentato un incontro sulla Shoah, per non dimenticare. Grande affluenza di persone interessate, grazie anche al linguaggio semplice e fluido della relatrice.

La serata è stata introdotta da Angelo Di Palma, il quale sostiene che tali eventi ci servono come vaccino contro il virus dell’odio, della violenza e dell’indifferenza. La serata è stata animata musicalmente dalla JB Band, che ci ha aiutato anche a comprendere la bellezza attraverso la musica. Successivamente la Professoressa Rebhun, con un linguaggio semplice, ci ha fatto vedere dai suoi occhi il dramma della Shoah come una circostanza per il popolo ebraico di ripartire. La parola dalla quale è partita per raccontarci il tutto è stata VITA: le varie, che durante la storia dell’uomo siamo chiamati a vivere, dalle più atroci alle più belle.

L’intervento del Parroco Don Mario, nel quale ha sostenuto non solo questi mondi culturali ci servono come vaccini ma a partire anche dalle parole della Costituzione come Roberto Benigni ci ha ricordato la prima serata del festival, soprattutto l’art. 21 attraverso il rispetto ed il rispetto con l’altro, noi siamo liberi di esprimere il nostro pensiero; gli eventi culturali vanno sempre promossi ed alimentati perché si può guardare il futuro solo e soltanto se noi conosciamo il passato, perché grazie alla storia possiamo conoscere il futuro. E questo deve essere da monito per tutti di non negare ciò che avvenuto e non diluire ed “annacquare” la nostra storia, perché va vissuta in prima persona e va attraversata, compresa come maestra di vita: tutti di noi siamo chiamati a farlo.

«La Shoah, nonostante tutto, è stata un esperimento fallito. Perché gli ebrei e tutte le minoranze che sono state colpite – sono state sì colpite duramente – ma non si sono estinte». Questo è uno dei messaggi forti che la scrittrice Miriam Rebhun dà, attraverso il suo libroHo inciampato e non mi sono fatta male”. Un libro in cui l’autrice, attraverso la ricerca e la ricostruzione della storia di una parte della propria famiglia – quella paterna, sprofondata nel buco nero della Germania nazista – è andata alla riscoperta delle proprie radici. Alla riscoperta della memoria, che rappresenta la nostra forza e che ci permette di costruire, di dare spessore e dignità al nostro essere. Perché, attraverso la storia passata, è possibile lavorare sul presente: per questo diventa essenziale dare voce a tale silenzio. Infatti, per soddisfare il bisogno di conoscere la storia della propria famiglia, dei nonni paterni – di cui non aveva mai visto neanche una fotografia – la scrittrice ha iniziato a cercare fonti e documenti storici.

Così, attraverso il libro, l’autrice è riuscita a ricostruire l’anello mancante, l’anello di congiunzione tra la generazione dei nonni paterni e quella che la vede protagonista, ovvero la generazione del padre, ucciso a soli 29 anni: «Mia madre era rimasta vedova a 23 anni. Mio padre era rimasto ucciso durante un attentato in Palestina. A seguito di ciò – racconta la Rebhun – io e mia madre avevamo fatto ritorno a Napoli, a casa dei miei nonni materni. Qui sono stata accolta con tanto affetto, ma ero cresciuta in una casa di adulti. La casa di una famiglia di reduci: prima dalle leggi razziali, dalla guerra dopo, oltre che dal lutto per la morte di mio padre. Quindi argomenti, dal punto di vista esistenziali, terribili. Allo stesso tempo, accanto a questi discorsi tristi, a casa di mia mamma circolavano i racconti della guerra. In particolare, i racconti del periodo in cui la mia famiglia era stata sfollata da Napoli per sfuggire ai bombardamenti in un paese del casertano – Tora e Piccilli – vicino Cassino. Qui, per una serie di circostanze, avevano trovato rifugio una sessantina di ebrei. Un paese che si rivelò essere molto protettivo nei nostri riguardi. Infatti, quando arrivarono i tedeschi, nessuno dei suoi abitanti disse: qui ci sono degli ebrei». Excursus storico del proprio nucleo familiare che da bisogno privato, si è trasformato in testimonianza indiretta sulla Shoah, diventando oggetto del suo libro. Un documento da lasciare in eredità alle generazioni future.

Testimonianza, quella della Rebhun, che raggiunge il momento più toccante quando l’autrice spiega il perché della scelta del titolo “Ho inciampato e non mi sono fatta male”. A tal riguardo, la scrittrice ha spiegato il significato di “pietra di inciampo” (in tedesco Stolpersteine). Una iniziativa lanciata dell’artista tedesco Gunter Demnig e che consiste nel collocare davanti alle abitazioni degli ebrei deportati, nel selciato stradale delle città, delle pietre – simili ai nostri “sanpietrini” – muniti di una piastra in ottone con una incisione. Un modo per mantenere viva la memoria dei cittadini deportati nei campi di sterminio nazisti. “Pietra di inciampo” che lei stessa ha voluto collocare in una traversa della città Berlino – PoshingerStraße n°14, dove si trovava la casa di residenza della famiglia paterna (che non esiste più) – in memoria della nonna Frida. Un atto d’amore anche nei confronti delle generazioni future, a cui viene affidata la responsabilità di mantenere viva la memoria della Shoah, affinché non si assista mai più a simili orrori. Per impedire che si inciampi ancora – scusate il gioco di parole – in ulteriori “pietre di inciampo”. Per evitare che, di nuovo, si assista all’egoismo, all’indifferenza e all’ignoranza volontaria di chi sapeva e ha volutamente taciuto.

a cura di Enrico Di Palma