Omelia nel primo anniversario del Vescovo Felice Cece

12-05-2021

OMELIA NEL PRIMO ANNIVERSARIO DEL VESCOVO FELICE CECE

CATTEDRALE DI SORRENTO, 12 MAGGIO 2021

       Carissimi,

       l’apostolo Paolo, che ci fa compagnia in questa tappa del tempo pasquale decisamente orientata alla Pentecoste, ci spinge oggi a un momento di riflessione più profonda, quasi una pausa necessaria prima di riprendere il cammino. Ci sentiamo tutti, dobbiamo confessarlo, alquanto disorientati. Avvertiamo attorno e dentro di noi un senso di confusione e di incertezza. Da dove ripartire? Come annunciare il Vangelo a uomini e donne che sembrano cercare altrove le ragioni della propria speranza? Sono le stesse domande che Paolo portava nel suo cuore e che esplosero drammaticamente proprio ad Atene, per l’esperienza del tutto nuova che fece nell’Areòpago. Fino a quel momento il suo annuncio si era basato sulla testimonianza delle Scritture, che nelle sinagoghe dei giudei venivano lette e commentate con assiduità ma che tanta resistenza purtroppo avevano causato in molti dei suoi correligionari. Anche ai pagani la buona notizia era stata predicata a partire dalle promesse dei profeti di Israele e mostrata dal vivo con la conversione di coloro che, scelti da Gesù come suoi discepoli, ora costituivano il fondamento della Chiesa. Ma ad Atene gli veniva chiesto qualcosa di assolutamente inedito. Nuovo era infatti il contesto in cui doveva far risuonare la Parola della salvezza. Nuovo il clima culturale e religioso, totalmente estraneo al mondo dal quale egli proveniva. Nuova anche la sensibilità degli ascoltatori, attratti certo da ciò che arrivava da lontano ma poco disposti a rimettere in discussione comportamenti e convinzioni ormai assodate.

       Il vescovo Felice, che oggi ricordiamo a un anno dalla sua morte, ci aiuta ancora con la sua esperienza di apostolo del Vangelo e maestro della Verità che rende liberi, secondo la promessa di Gesù che troviamo nel suo motto episcopale. Anche lui infatti ha dovuto fare i conti con una vera e propria conversione intellettuale, prima che pastorale. Il mondo dal quale proveniva, con le sue certezze religiose e i suoi rigorosi fondamenti filosofici e teologici, si è scontrato con una realtà in grande cambiamento, dove tutto veniva messo in discussione passando dall’accettazione supina al rifiuto ostile per giungere poi all’indifferenza diffusa. Come rimanere fedeli al Vangelo e mostrarlo nella sua perenne fecondità? Mons. Cece non si è tirato indietro dinanzi a questa sfida epocale e, lasciandosi ispirare dal Concilio Vaticano II, ha accettato di entrare dentro l’arena e avviare un dialogo serio e profondo, proprio come San Paolo.

Per l’apostolo non era affatto facile trovare un punto di incontro. I presupposti razionali sembravano inconciliabili e le sensibilità religiose diametralmente opposte. Eppure egli si inoltrò per un sentiero comune, che non poteva essere motivo di divisione o di contrasto: si presentò per annunciare quel Dio che “senza conoscerlo, voi adorate” (At 17, 23). Un’intuizione sorprendente, pienamente ispirata: non si trattava semplicemente di catturare l’attenzione o guadagnare il consenso di quell’assemblea così lontana dal proprio mondo, ma di partire da ciò che da sempre accomuna. Siamo tutti cercatori di Dio e in mille modi diversi esprimiamo questo bisogno spirituale insopprimibile. A partire da questa esigenza fondamentale Paolo si lasciò guidare nel passare dal “dio ignoto” che gli ateniesi adoravano al “Signore del cielo e della terra”, che non è “lontano da ciascuno di noi” perché in lui “viviamo, ci muoviamo ed esistiamo”. Passaggio straordinario, che permise all’evangelizzatore addirittura di citare i loro poeti: “Perché di lui anche noi siamo stirpe” (cf At 17, 24-28). Ciò che ci unisce è molto più di ciò che ci divide!

La ricerca di un linguaggio accessibile a tutti ha spinto anche il nostro vescovo Felice ad aprire sentieri fino ad allora ancora inesplorati. Il suo magistero non si è contraddistinto solo per i saldi principi dottrinali, che pure hanno da sempre segnato il suo percorso teologico e spirituale. Egli si è lasciato interpellare dalle situazioni incresciose e problematiche, che si sono succedute con un ritmo incalzante durante gli anni del suo ministero episcopale in diocesi. Nessuna realtà gli è rimasta estranea, anche quelle più complesse e contraddittorie. Possiamo affermare con gratitudine che veramente gli stava a cuore il bene di ogni persona e nessuno mai doveva sentirsi escluso dalla sua azione pastorale. Le parole e i gesti, curati nei dettagli fino alla meticolosità che tanto lo distingueva e semplificati al massimo, sono stati sempre espressione di amore grande e di fiduciosa attenzione a tutti, privilegiando coloro che l’opinione pubblica considerava i più poveri culturalmente, socialmente, economicamente. Ha mostrato così a tutti il volto del Padre buono e misericordioso!

Ritorniamo ad Atene. L’apostolo è giunto al punto cruciale del suo discorso, perciò si sente libero di poter alzare il tono. Ed ecco l’invito forte e coraggioso a passare dall’ignoranza, che identifica la divinità con un idolo, alla conversione, intesa come cambiamento radicale di prospettiva. Non vuole umiliare i suoi ascoltatori e neppure giudicarli per la loro fede ridotta a culto esteriore. Nessuna separazione tra cielo e terra, tra Dio e l’uomo, che rimanendo essenzialmente distinti non sono più distanti. Anzi è proprio “per mezzo di un uomo”, Gesù Cristo, che Egli chiama tutti a sé in vista del giorno in cui “dovrà giudicare il mondo con giustizia”. Paolo può ora annunciare la Pasqua, l’opera meravigliosa di Dio, il suo capolavoro. È possibile credere in lui e consegnare a lui le sorti dell’umanità di tutti i tempi, perché Dio ce ne ha dato “prova sicura col risuscitarlo dai morti” (cf. At 17, 29-31). L’impossibile si è verificato. La ragione, via indispensabile perché l’uomo tenda alla trascendenza, ora può aprirsi alla fede perché il divino ha fatto irruzione nella storia. Qui sta parlando non più solamente un maestro, ma un testimone!

Non è questa, d’altra parte, l’eredità più preziosa che ci ha lasciato Mons. Cece? Testimone del Risorto, annunciatore della speranza che nasce dalla sua Croce, servo del Signore la cui gloria è impressa sul volto dei fratelli e delle sorelle più deboli e bisognosi: il vescovo Felice è diventato così un fedele apostolo del Vangelo, che non si è stancato di annunciare in ogni circostanza perché tutti potessero vivere la gioia dell’incontro con Gesù. Certo egli ha dovuto vincere la sua naturale ritrosia, che a volte poteva essere scambiata per distacco o isolamento. Ma solo chi non lo conosceva personalmente poteva cadere in questo abbaglio. La sua amabilità, la capacità di tessere relazioni benevole e mai superficiali, il rispetto per l’altro quasi fino all’eccesso sono state virtù da lui coltivate a partire sempre e solo dalla sua fede, schietta e profonda. L’amore per il suo Signore si è tradotto così in servizio fedelissimo ma non servile alla Chiesa, senza cercare altro che il bene delle singole persone e di tutto il Popolo che gli era stato affidato. Il suo stile sobrio ed essenziale, la rinuncia a ogni privilegio o forma esteriore che lo separasse dalla gente, l’accoglienza di tutti a prescindere dal ruolo svolto nella società e nella comunità cristiana: non sono per noi solo bei ricordi di una persona cara, ma annuncio luminoso della bellezza di Cristo Signore entrato nella sua vita e diventato per lui fine unico di ogni sua azione. Possiamo con gratitudine commossa applicare a lui le parole, tanto note quanto preziose e vere, di San Paolo VI a cui ha ispirato tutto il suo ministero: “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni” (Evangelii nuntiandi, 41).

Quale fu il risultato del discorso di Paolo ad Atene? Piuttosto scarso, secondo la logica del successo legato ai numeri: poche persone “si unirono a lui e divennero credenti”. L’apostolo ha fatto l’esperienza, umanamente amara, dell’incomprensione: “lo deridevano”, e del rifiuto: “Su questo ti sentiremo un’altra volta” (cf. At 17, 32-34). Ma il mandato missionario non garantisce il successo. Ciò che conta è testimoniare la gioia del Vangelo, continuando a confidare nella bontà misericordiosa del Padre celeste anche quando si deve andar via scuotendo la polvere dai piedi. Il discepolo missionario non si ferma né si abbatte, cedendo alla delusione o allo scoraggiamento. Prosegue con tenacia il suo cammino, che lo porterà a Corinto, città nella quale il Signore gli rivelerà di avere “un popolo numeroso” (At 18, 10).

Un’esperienza simile ha vissuto il nostro don Felice. Lo zelo profuso nel suo lungo episcopato al servizio di questa Chiesa diocesana, che ha amato e servito con impegno encomiabile, non gli ha permesso di raccogliere sempre frutti abbondanti. Non li ha in verità nemmeno mai cercati. Sua unica preoccupazione è stata unicamente la gloria di Dio e la pace per gli uomini in Lui amati. Restano le scelte profetiche, maturate in un lungo e convinto cammino sinodale che lo ha caratterizzato fin dall’inizio e consegnate alla comunità ecclesiale, consapevole dell’autorità ricevuta da Dio per il bene del suo Popolo. Resta il suo magistero, illuminato e puntuale, ricco e accessibile, aperto a tutte le dimensioni della realtà così variegata e complessa pur di annunciare Cristo, unico Salvatore del mondo e Redentore di ogni uomo e di tutto l’uomo. Resta una testimonianza luminosa, che a distanza di un anno dalla conclusione del suo pellegrinaggio terreno rileggiamo e accogliamo con animo di figli, consapevoli di essere eredi spirituali di un patrimonio impegnativo. Possiamo farci aiutare da quanto Papa Francesco ha scritto nella Lettera Apostolica “Patris corde”, per il 150° anniversario della dichiarazione di S. Giuseppe quale patrono della Chiesa universale:

“Nella società del nostro tempo, spesso i figli sembrano essere orfani di padre. Anche la Chiesa di oggi ha bisogno di padri. (…) Essere padri significa introdurre il figlio all’esperienza della vita, alla realtà. Non trattenerlo, non imprigionarlo, non possederlo, ma renderlo capace di scelte, di libertà, di partenze. (…) La logica dell’amore è sempre una logica di libertà.” (n.7).

Sì, il vescovo Felice è stato un autentico pastore per la nostra Chiesa diocesana e per ciascuno di noi. Avendo risposto con generosità alla chiamata del Signore, egli ha dimorato nel suo amore, senza cercare mai se stesso. Ha amato tutti fino alla fine…

CON CUORE DI PADRE!