“Pedagogia della fine, grammatica dell’amore”: riflessioni sull’aggiornamento del Clero

Pedagogia della fine, grammatica dell’amore
Educare alla fede e alla vita nel tempo della fragilità

Ci sono parole che non si limitano a informare, ma trasformano. Parole che si depositano come polvere d’oro nelle crepe dell’anima. L’espressione condivisa dalla prof.ssa Antonia Chiara Scardicchio nell’Aggiornamento del Clero – «L’altro nome di nostra sorella morte è nostra sorella realtà» – è una di quelle parole. Non si tratta di una formula paradossale, né di un elegante gioco retorico. È un’intuizione spirituale e pedagogica che ci costringe a ripensare la nostra postura davanti al vivere e al morire, al credere e all’educare.
In un tempo come il nostro, attraversato da fragilità diffuse, da crisi che non sono solo sistemiche ma anche esistenziali, l’educazione alla fede rischia di ridursi a un contenitore di risposte quando, invece, dovrebbe offrire uno spazio generativo di domande. La realtà – e ancor più la realtà che ha il volto della morte – non è da censurare o spiritualizzare, ma da abitare. Come scrive Dietrich Bonhoeffer:

«Il cristiano non deve rifugiarsi nella religione, ma rimanere nel mondo e condividerne pienamente le sofferenze».

Apocalisse e Cantico: i due poli della realtà redenta
Il titolo scelto per l’incontro – “Il tempo dell’Apocalisse e del Cantico dei Cantici: educare alla fede e alla vita nel tempo della fragilità” – accosta due testi biblici che, apparentemente, sembrano collocarsi agli antipodi. L’uno, Apocalisse, ci porta dentro lo svelamento del dolore e del giudizio, lo scenario del combattimento finale tra il Bene e il Male. L’altro, il Cantico, canta il desiderio, l’amore che cerca e si lascia cercare, il corpo che diventa parola nuziale. Eppure entrambi ci parlano della realtà ultima: non come un’astrazione, ma come un grembo. L’Apocalisse non è la fine del mondo, è il suo compimento. Il Cantico non è un idillio sentimentale, è la grammatica di un Dio che si dona come sposo. Entrambi ci rieducano a guardare la realtà con occhi trasfigurati. Ci insegnano a non temere ciò che accade, ma a stare – come Maria ai piedi della croce – nella realtà, senza fuggire da essa.

Hans Urs von Balthasar scrive:

«Solo ciò che è amato può essere salvato. Ma per essere amato, deve prima essere visto».
E forse il compito primo dell’educatore cristiano è proprio questo: generare sguardi capaci di vedere la realtà nella sua interezza, anche laddove è ferita, mancanza, fine.

Nostra sorella morte, nostra sorella realtà
Francesco d’Assisi, nel suo Cantico, chiama la morte sorella. Non nemica, non spettro da esorcizzare, ma sorella. Nella scia di Francesco, l’espressione di Antonia Chiara Scardicchio allarga lo sguardo: morte e realtà si specchiano. Perché non c’è nulla di più reale del limite. La morte è la soglia che rivela ciò che conta. È la prova del nove di ogni educazione alla vita. È la realtà che ci costringe a scegliere tra superficialità e profondità.
Ma c’è di più. La morte come realtà ci dice che la fede non è un antidoto, è un attraversamento. Non ci viene chiesto di evitare la fragilità, ma di starci dentro come ha fatto il Cristo: «In tutte le loro angosce, egli stesso fu angosciato» (Is 63,9).

Etty Hillesum, giovane ebrea morta ad Auschwitz, scriveva nel suo Diario:
«Ciò che conta non è il fatto che un giorno dovremo morire, ma il modo in cui vivremo fino a quel giorno».
In questo senso, la morte non è la nemica della vita, ma la sua sorella maggiore. Colei che, sussurrandoci la fine, ci insegna l’intensità. Educare alla fede nel tempo della fragilità significa allora educare a una vita piena, consapevole del limite, abitata dalla speranza.

Educare nel tempo della fragilità
Il nostro tempo ha smarrito la grammatica del limite. E con essa, anche quella della speranza. Siamo immersi in una cultura del controllo, dell’efficienza, dell’infallibilità. Ma la fede cristiana si radica su un evento di fragilità: un Dio che muore crocifisso. Come ricordava Karl Rahner:

«La realtà ultima della fede non è un’idea, ma una storia. Una storia concreta, fatta di sangue e di lacrime».

Educare alla fede oggi significa far germogliare una coscienza capace di attraversare la realtà senza negarla, capace di restare nelle pieghe del dolore senza perdersi. Significa insegnare che non si muore davvero finché si ama. E che non si vive veramente finché non si è disposti a perdere qualcosa per amore.

È questo il Cantico che risuona dentro l’Apocalisse. È questo il mistero nuziale che si cela dentro ogni crollo. È questa la realtà – sorella morte – che può diventare grembo di fede e di nuova umanità.

Conclusione

In un tempo in cui tutto sembra sgretolarsi – relazioni, certezze, linguaggi – forse solo chi ha fatto pace con la propria fragilità può educare. Solo chi, come il Risorto, porta ancora le ferite nel corpo può parlare di salvezza.
Solo chi non teme di guardare in faccia la realtà, chiamandola persino con il nome della morte, potrà annunciarne la resurrezione.

Perché il cristiano è colui che, in fondo, ogni giorno sussurra con fiducia:
Anche la morte è sorella. Anche questa realtà sarà redenta.

Don Salvatore Abagnale

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