Funzionare o esistere? Riflessioni sull’aggiornamento del clero

Il problema della formazione non è un problema, è una sfida. Necessaria, come oggi si suol dire.

Non si può prescindere, in un mondo che cambia, anzi è già cambiato nella manciata di secondi in cui queste battute appaiono sullo schermo, dalla cura dei pensieri, dal nutrimento, dalla ricerca ininterrotta di parole e visioni che permettano di leggere la realtà in modo adeguato e poi raccontarla in modo adeguato, magari cercando di concorrere al cambiamento di quel che adeguato non è. Ciò vale per ogni professionalità che collimi con una vocazione, cioè con la cura dell’altro-da-sé. Ancor più vale o dovrebbe valere per noi presbiteri che ribadiamo come in un mantra che siamo a servizio di tutti ma, alcune volte, mancando di cura effettiva, di sé (del sé) prim’ancora che dell’altro.

Il paradosso, anzi, l’inghippo, l’intoppo, il cane che si morde la coda, il circolo vizioso si innesca all’atto in cui lo si riconosce: più so di aver bisogno, meno mi ingegno per ottenere quel che mi servirebbe; più ho fame e meno mangio; più desidero – come ossigeno – pensieri che portino aria all’aria viziata di certi atteggiamenti, invischiamenti, indurimenti, ammiccamenti e meno apro la bocca per respirare. “Fame d’aria” la chiamavano in pandemia. Come mai? La risposta è venuta fuori subitanea dalla stessa Antonia Chiara Scardicchio: ha impostato il nostro aggiornamento del clero intorno al cimento. Serve cimentarsi. Serve adoperarsi. Più è ardito il compito in cui desidero cimentarmi e più sarà alta la posta in gioco. Più mi affatico in quel che ancora non so fare e più “rischierò” di cambiare la mia strada, o addirittura la mia storia. Il cimento è quel che serve a chi desidera uscire dalle sabbie mobili di una routine mediocre e salire in alto, dove si respira aria nuova. Ecco la ragione, o una delle ragioni che rendono la formazione permanente del clero, degli educatori, delle catechiste, degli insegnanti, dei singoli battezzati o di un’intera Comunità necessaria ma spesso disattesa: comporta il cimento.

Eppure la due giorni proposta per quest’anno al Clero di Sorrento-Castellammare ha avuto i toni di una cosa nuova. Semplicissima, per carità, per niente stravagante o esotica. Però nuova e, si spera, capace di rinnovamento, cioè di rendere nuovo il passo e i pensieri e magari le scelte e la Diocesi e la chiesa intera e il mondo: ogni lungo viaggio parte da un piccolo passo, vero? Citazione banalotta da schermata al cellulare. E allora vada per questa: il Regno di Dio è come un granello di senape, il più piccolo dei semi che però poi diventa grande e disteso coi suoi rami, come una casa accogliente per molti. Può andare questa di citazione per esprimere la potenza di un incontro? “Omelia, poesia, bizzocheria, vuommeco”: ecco i loghismói più nefasti che smorzano sul nascere il desiderio. “È tutto inutile”, persino il Vangelo è poesia. Perché richiede cimento, come un seme che se non te ne curi lo schiacciano i passanti gettandolo in un covo di spine.

Ritorniamo alla novità. Tre res novæ vissute il quattro e cinque giugno dal clero della nostra Diocesi, per chi c’era e per chi non c’era (le cose nuove valgono per tutti, se producono effetto: come l’albero che cresce – se cresce – e non può non accorgersene il resto del villaggio).

La prima: le pareti bianche dello spazio che ci ha accolti. Una cosa nuova. Il centro diurno della Fondazione Fanelli, che tenta da decenni di riscattare vite invecchiate anzitempo per mezzo della cura della comunità educante, ecclesiale in senso lato. Il pranzo preparato e servito dagli ospiti (pardon, i padroni di casa) della Comunità. La presenza silenziosa di don Mario di Maio. L’avvicendamento rispettoso di chi ne assumerà l’incarico, don Salvatore Branca. Tutto nuovo. Mai fatto prima, mai visto prima. Cimento e fatica che genera sorpresa.

La seconda: la diagnosi meticolosa di Antonia Chiara Scardicchio sul mondo che viviamo. Competente. Ben comunicata. Supportata da titoli e autori snocciolati in continuazione, come a sostenere un impianto che va continuamente giustificato, dati alla mano: perché il problema della post-verità è che viviamo un mondo abitato da un malessere diffuso e molti di noi, forse la maggior parte, lo sanno, lo riconoscono dentro e fuori di sé, ma poi? Quando si tratta di stilare la diagnosi ci si tira indietro pensando che tutto sommato le conquiste della contemporaneità sono superiori ai rischi, che i nostalgici refrattari all’innovazione ci sono oggi come al tempo di Aristotele; che è vero, sì, siamo un po’ tutti dipendenti…ma lo scopro scrollando il cellulare al gabinetto, tra una foto e un video, tra un aforisma di Bukowsky e uno stralcio del Vangelo, tra il commento domenicale di Rosini e quello di Epicoco, tra la Messa e l’ennesimo incontro per organizzare l’estate. È il caos che ci devasta. Il tempo che viviamo porta una sacca di bruttezza indiscutibile dentro sé che – biblicamente almeno – dobbiamo chiamare per quello che è: caos. Vite disordinate. Pensieri alla rinfusa, come questo scritto presumibilmente. Come il tutto e il contrario di tutto che leggiamo/ascoltiamo/subiamo/nella migliore delle ipotesi pensiamo durante le nostre giornate. Antonia Chiara Scardicchio è stata nuova e il suo ragionamento è stato nuovo perché da insegnante, laica, donna, credente (certo anche persona umana quindi imperfetta e discutibile) ha espresso un pensiero vivido e articolato, senza invettive né facili pessimismi: siamo ammalati, ma si può guarire.

La terza: il secondo giorno. Analisi, diagnosi, terapia. L’indomani, il cinque di giugno, siam rimasti soli e pochi a dire il vero. La metà della metà della metà: una ventina di preti alle prese con la traccia lasciata in sospeso dalla nostra terapeuta suo malgrado: “confrontatevi tra voi, sinceramente, sull’uso che fate dei vostri devices”, o sull’uso che i vostri devices fanno di voi. Ci siamo cimentati. Attenzione, faticoso non è aprirsi o raccontarsi, faticoso non è mostrarsi deboli agli occhi del fratello (chiamato così ma alcune volte percepito come estraneo), faticoso non è accettare di aver bisogno di aiuto o di terapia, di formazione permanente. La fatica è stata e sempre sarà scegliere. Scegliere di venir fuori dalla palude e pensare che sia ancora possibile respirare aria pulita. Questa volta è accaduto, per alcuni tra noi fortunati o soltanto più consapevoli di aver bisogno. E se una volta è accaduto, vuol dire che ogni volta potrà accadere, mettendo in campo però qualcosa di nuovo, sempre più nuovo: incontri autentici. Veri.

Non v’è altra terapia.

Don Paolo Anastasio

 

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