Parlare oggi della figura del prete significa entrare in un mondo complesso, fatto di luci e di ombre, di grandezze e di fragilità. Un tempo il sacerdote era percepito quasi naturalmente come una guida indiscussa: il suo ruolo sociale e religioso era dato per scontato, le persone lo riconoscevano come punto di riferimento e spesso non si chiedevano neppure chi fosse, perché bastava il fatto che fosse “il prete”. Oggi, invece, le cose sono cambiate.
La società è diventata più pluralista, le voci che circolano sono tante e non sempre convergenti, e anche la Chiesa stessa vive grandi momenti di trasformazione. In questo scenario, il prete non può più contare solo sul “ruolo” che ricopre, ma deve continuamente guadagnarsi la fiducia delle persone attraverso l’autenticità della sua vita e la profondità delle sue relazioni.
Il ministero sacerdotale, nel contesto odierno, non si riduce a celebrare i sacramenti o predicare dall’altare. Un prete è spesso chiamato a essere educatore nelle scuole, nei momenti difficili, mediatore nei conflitti, consigliere spirituale e persino sostegno psicologico per chi attraversa crisi personali. Capita, ad esempio, che un giovane si avvicini a lui non per parlare di fede, ma perché ha bisogno di qualcuno che lo ascolti nelle sue difficoltà affettive; oppure che una coppia in crisi chieda al parroco un confronto non tanto sulla dottrina, quanto sul modo di ricostruire la comunicazione nella loro relazione.
In tutte queste situazioni, il sacerdote non può limitarsi a ripetere formule preconfezionate, ma è essenziale che abbia maturità psicologica per reggere il peso emotivo di ciò che gli viene affidato e maturità spirituale per trasformare ogni incontro in occasione di crescita e di speranza.
La sfida è veramente grande, Donald Winnicott parlava del rischio di costruire un “falso Sé”, cioè una maschera dietro cui ci si nasconde per apparire sempre adeguati (Winnicott, 1965). Questo per un prete può significare rifugiarsi dietro il “ruolo clericale” come protezione, mostrando solo efficienza e perfezione, mentre dentro rimane un mondo di fragilità e solitudini non riconosciute. Ma se il prete cade in questa trappola, rischia di diventare rigido, distante, e alla lunga anche amaro. Quante volte, per esempio, capita di incontrare preti che lavorano senza sosta, sempre disponibili per tutto e per tutti, ma che in realtà stanno fuggendo da sé stessi! L’attivismo diventa allora una via di fuga che riempie le giornate, ma lascia vuoti dentro.
La maturità psicologica, invece, consiste nell’accettare la propria umanità. Un prete che sa riconoscere i suoi limiti, che non ha paura di dire “sono stanco” o “ho bisogno anch’io di essere aiutato”, diventa molto più credibile agli occhi della comunità. Carl Rogers sosteneva che «ciò che è più personale è anche ciò che più profondamente tocca l’altro» (Rogers, 1961). Non è dunque la perfezione e l’efficenza a rendere fecondo il ministero, ma la capacità di essere autentici. Quando una persona percepisce che il parroco non finge, ma è vero, si sente libera di mostrarsi per quella che è.
Accanto alla maturità psicologica, c’è la maturità spirituale, che è forse ancora più decisiva. Essere prete non significa soltanto svolgere un servizio alla comunità, o essere funzionari del sacro ma soprattutto vivere in una relazione viva con Dio. Henri Nouwen parlava del ministro come di un “guaritore ferito”: qualcuno che non nasconde le proprie ferite, ma le offre come spazio di comunione e di incontro (Nouwen, 1972). Questa immagine è molto realistica: un prete non deve apparire come un superuomo, ma come un fratello che cammina con gli altri e che, proprio attraverso le sue fragilità, diventa capace di vicinanza e di empatia.
Eppure, oggi, uno dei grandi problemi che si sta palesando sempre più nello scenario presbiterale, è che molti preti non hanno più un padre spirituale. Non di rado i sacerdoti si trovano senza guide autentiche che li aiutino a crescere interiormente, e questo li lascia soli davanti alle proprie fatiche. Quando manca un accompagnamento sano e profondo, il rischio è quello di rifugiarsi in un’attività senza sosta, che riempie i vuoti ma non li guarisce.
Invece, tornare a percorsi di direzione spirituale veri, fatti di ascolto e discernimento, può ridare respiro e radici al ministero. Il prete oggi è chiamato a essere un uomo integrato, capire di unire in sé la dimensione psicologica e quella spirituale. Egli non è credibile perché perfetto, ma perché autentico. La cura di sé, in questo senso, non è un lusso, né un gesto narcisistico, ma una responsabilità fondamentale: un sacerdote che trascura la sua interiorità rischia di proiettare sugli altri i propri problemi irrisolti, ferendo invece di guarire.
Al contrario, chi si prende cura di sé, chi si concede spazi di silenzio, chi si lascia accompagnare, diventa una presenza che dona pace e speranza.
Essere preti oggi significa allora coltivare un cammino di verità: verità davanti a Dio, davanti a sé stessi e davanti agli altri. Solo un uomo che ha imparato a essere vero può aiutare gli altri a vivere nella verità. E in un mondo che spesso vive di apparenze e di maschere, un prete autentico diventa davvero segno di Vangelo, cioè buona notizia per chi lo incontra.
Don Raffaele D’Antuono.
Sacerdote dell’Arcidiocesi Sorrento-Castellammare di Stabia e Psicologo clinico, in formazione in psicoterapia della Gestalt
Bibliografia
- Erikson, E. H. (1968). Identity: Youth and Crisis. New York: Norton.
- Frankl, V. (1946). Uno psicologo nei lager. Milano: Ares.
- Jung, C. G. (1951). Aion. Ricerche sul simbolismo del Sé. Torino: Bollati
Boringhieri.
- Nouwen, H. J. M. (1972). The Wounded Healer. New York: Image Books.
- Rogers, C. (1961). On Becoming a Person. Boston: Houghton Mifflin.
- Rulla, L. M. (1986). Antropologia della vocazione cristiana. Roma:
Gregoriana.
- Winnicott, D. W. (1965). The Maturational Processes and the Facilitating Environment. London: Hogarth Pr
