Come formare i pastori per una Chiesa sinodale?
La domanda ritorna da tempo nella vita delle nostre comunità ecclesiali.
Non è più un argomento riservato agli esperti o confinato nelle riunioni episcopali che, a vari livelli, cercavano di rispondere ai bisogni di una società in rapida trasformazione. Ora se ne interessano tutti. Alcuni con preoccupazione, per il calo numerico delle vocazioni; altri, pensosi e critici, con l’interrogarsi sul senso religioso della vita che va diluendosi non solo nelle nuove generazioni; altri ancora, con animo aperto e fiducioso nell’azione dello Spirito santo, provano a immaginare come sarà la figura del prete nei prossimi decenni, ricercando nuove soluzioni e accettando la sfida del “cambiamento d’epoca”.
È chiaro che nessuno ha la ricetta pronta. Occorre anzi diffidare dinanzi a proposte immediate e semplicistiche. Una società articolata e pluralista richiede risposte adeguate, capaci di far abitare la complessità con intelligenza creativa. Soprattutto è necessario uscire da quella solitudine pastorale che presume di individuare possibili strade di rinnovamento a partire dalla propria limitata e parziale visione. Prendiamo atto che una fase storica, durata molti secoli, è alle nostre spalle e che sulla spinta del rinnovamento conciliare siamo oggi spinti a fare un passo decisivo per il futuro prossimo.
Occorre dichiarare conclusa la lunga tappa del prete che viveva il suo compito sacerdotale nella fedeltà alla propria vita spirituale, in quella solitudine che preservava il celibato, ma separava il consacrato ponendolo come mediatore tra Dio e i fedeli. E inoltrarci decisamente sui sentieri aperti dal concilio Vaticano II della costruzione concreta del collegio presbiterale, chiamato a collaborare con il vescovo al servizio del popolo di Dio, di cui tutti fanno parte in virtù del battesimo e con i quali si condivide l’unica missione dell’annuncio del Regno in mezzo agli uomini del nostro tempo.
Il Sinodo sta aprendo prospettive interessanti, prima impensabili. Se le nostre comunità sono alla ricerca di forme nuove per incarnare il Vangelo e testimoniarlo negli ambienti di vita più disparati, cresce l’esigenza di pastori esperti nella sinodalità. Cosa significa? Per non cedere alla moda del momento e ammantare ogni cosa di uno “stile sinodale”, con il rischio di conservare vecchi schemi senza cambiare nulla, bisogna giungere a fare scelte coraggiose, condivise insieme.
Provo a esprimere una possibile pista di passaggi indispensabili per il discernimento comunitario, che sta segnando la seconda tappa del cammino sinodale delle Chiese che sono in Italia.
Innanzitutto la fraternità. È il cuore del Vangelo. Vale, dunque, per tutti i battezzati. Ed è impensabile che le guide della comunità non ne facciano esperienza, anzi che non siano esperte nella cura di relazioni fraterne, a tutti i livelli. I pastori sono chiamati a vivere relazioni di prossimità con tutti, sapendo aprire il cuore a chiunque bussa alla porta della famiglia parrocchiale o si imbatte in essa per i più svariati motivi. E saranno pronti ad animare comunità aperte, non arroccate sulla propria identità rigida ed escludente, se impareranno a curare la vita fraterna innanzitutto tra di loro. Dall’amicizia alla comunione, dall’accettazione delle diversità di stili alla ricerca comune di opzioni pastorali, dal confronto scevro da ogni futile contrapposizione al dialogo cercato con umiltà. Un ideale utopistico, riservato solo a pochi, o la via da percorrere tutti insieme per essere rispondenti al mandato ricevuto?
Sarà, poi, assai importante passare da forme ancora esistenti di abuso clericale di potere («qui comando io» o «parlate pure, ma alla fine decido io») ad altre di vera corresponsabilità nella missione della Chiesa. Non dobbiamo aver paura di rivedere gli organismi di partecipazione, non solo per ridare a essi vitalità e funzionamento, ma per esprimere la vita stessa della comunità cristiana con la valorizzazione di tutti i carismi suscitati dallo Spirito. Avere pastori sinodali significherà, dunque, preparare preti non autoreferenziali, pronti a camminare con il popolo che sono chiamati a servire, esperti nell’esercizio del discernimento comunitario che imparano a praticare innanzitutto tra di loro e con il vescovo. Ci domandiamo: i nostri seminari si stanno orientando in questa direzione, privilegiando esperienze formative di comunione pastorale e facendone un criterio discriminante per il riconoscimento vocazionale?
Dovremo, infine, operare scelte profetiche, che non siano un semplice aggiustamento di schemi pastorali ormai superati. Il rinnovamento parte dal cuore dei singoli e di tutto il popolo di Dio, nella libertà di scelte mature e consapevoli di voler seguire il Signore. I ministri ordinati dovranno accompagnare, sostenere e incoraggiare questo non facile cammino. Saranno all’altezza del loro compito nella misura in cui condivideranno il dono della profezia tra di loro, rinunciando ad ambizioni individuali e a gelosie carrieristiche. Ogni Chiesa particolare ha diritto a ritrovare nel proprio vescovo, coadiuvato dal collegio dei presbiteri e dei diaconi, la prima esperienza concreta di comunità evangelica.
Credo che potrà essere questa la pista da ripercorrere, con modalità nuove e fortemente sinodali, perché le parrocchie escano decisamente da quell’isolamento ecclesiale in cui spesso ancora si ritrovano, per dare vita a cammini condivisi e aperti al contributo di tutti. In tal caso, le cosiddette Unità pastorali, aiutate da pastori non più tesi a difendere il proprio spazio di azione, potranno esprimere in modo sorprendente la bellezza del camminare insieme per testimoniare a tutti la gioia del Vangelo nella compagnia degli uomini.
Mons. Francesco Alfano
