Dal diario di don Franco: Betlemme, 30 aprile 2019

Pellegrinaggio diocesano in Terra Santa

Betlemme, 30 aprile 2019 Ore 18.55

L’ultimo giorno del nostro pellegrinaggio in Terra Santa non è stato per nulla facile. E non tanto per la stanchezza accumulata nei giorni precedenti, che pure si è fatta sentire. Neppure per i numerosi siti visitati qui a Gerusalemme. No, la difficoltà è rappresentata dalla stessa città santa, considerata tale dalle tre gradi religioni monoteistiche: ebrei, cristiani e musulmani ritrovano in questa città, anche se in modo diverso, le radici della propria fede. Perciò la nostra prima tappa è consistita in una breve ma intensa sosta al Muro occidentale del tempio, più comunemente noto come il Muro del pianto: la preghiera degli ebrei, caratteristica per il dondolare del corpo e per i segni con cui lo ornano (dai diversi copricapi ai piccoli rotoli della Legge, avvolti sulla fronte e sulle braccia oltre che sulle frange del mantello o del vestito), in un primo momento incuriosisce ma poi apre il cuore al rispetto e alla gratitudine. Essi hanno conservato l’amore alla Scrittura, che venerano in modo viscerale. Ci testimoniano la fedeltà di Dio all’Alleanza e la speranza nell’attesa del suo compimento messianico, nonostante le tantissime prove lungo il corso dei secoli. Sono i nostri “fratelli maggiori”, come li chiamò Giovanni Paolo II, anche se l’espressione non è piaciuta a molti di loro per il riferimento alla storia biblica di Giacobbe ed Esaù. In ogni caso il legame che ci unisce nella fede è fortissimo, nonostante le divisioni e le incomprensioni che ancora si diffondono nelle rispettive comunità. Il Dio che si è rivelato qui ad Abramo sul Monte Moria, dove poi fu edificato il Tempio con il Sancta Sanctorum che custodiva l’arca dell’alleanza, ci aiuti a riconoscerci reciprocamente come suo Popolo, chiamato ad annunciare a tutti le sue opere meravigliose!

Ci siamo poi spostati sulla spianata del Tempio, dove gli Ebrei non entrano per non contaminarsi. Infatti sono stati i musulmani a prenderne possesso, edificandovi due grandi moschee: quella centrale addirittura occupa lo spazio sacro dove nessun ebreo poteva entrare se non il sommo sacerdote una volta all’anno per l’espiazione dei peccati. Per la religione islamica invece proprio da quella roccia Maometto sarebbe salito al cielo con il suo cavallo: ecco perché considerano Gerusalemme la terza città santa, dopo la Mecca e Medina. Anche durante questa breve visita non è stato immediato raccogliersi in preghiera, per le distrazioni e le preoccupazioni dovute alle evidenti e palpabili tensioni tra palestinesi e israeliani. Ho cercato nel silenzio del cuore di innalzare la mente a Dio, perché ci doni la pace attraverso il dialogo paziente e fiducioso, nell’umiltà di chi sa leggere nella storia di questo popolo un’ansia religiosa assai profonda e la condivisione di valori spirituali ed etici tutti da riscoprire. Papa Francesco, che ho sentito molto vicino durante tutta la visita, ci sta aiutando non poco con i suoi gesti e soprattutto con il suo coraggioso magistero: che cristiani e musulmani percorrano insieme la via della tolleranza, segno concreto e forte della fede nell’unico Dio che ci vuole tutti suoi figli!

Finalmente l’ultima tappa, che ci ha impegnati fino al tardo pomeriggio: la morte e la risurrezione di Gesù Cristo! Abbiamo provato a seguirlo per la Via Dolorosa, dopo l’arresto e il doppio processo, quello ebraico con il sinedrio convocato di notte e quello romano davanti a Pilato. Arrivare al sepolcro non è stato semplice: insieme a tanti altri gruppi di pellegrini, tra le vie del mercato arabo, nell’indifferenza di tutti quelli che continuavano la loro attività commerciale e quelli che ti venivano appresso per venderti a ogni costo qualcosa. La salita al calvario, pochi gradini che portano al doppio altare della crocifissione, uno latino e uno ortodosso, è stata un’impresa e ancor più lunga la fila per inginocchiarsi e toccare la roccia su cui era fissata la croce. Molti parlavano tra di loro, facevano foto, si infastidivano per la lunga attesa:  la mia preghiera è stata anche qui silenziosa e profonda, fino a sciogliere il cuore in lacrime di amore e di gratitudine per tanto amore che continua a non venir meno nonostante la nostra indifferenza. Il passaggio al Santo Sepolcro, con la fila ancora più lunga, che abbiamo evitato, ci ha permesso di gioire intimamente, andando ben oltre la curiosità del vedere e del toccare: Cristo è risorto, è veramente risorto! Uscire dalla basilica della risurrezione (titolo che meglio esprime il senso di questo edificio sacro e caro a tutti i cristiani) ci ha rimessi nell’atteggiamento di fede più giusto: quel Gesù che ha sofferto nel Getsemani e che ha chiesto al Padre di essere liberato dal calice della passione è lo stesso che poi si è totalmente affidato a Lui. La Messa celebrata nella chiesa del “Dominus flevit”, che ricorda il pianto di Gesù su Gerusalemme, ci ha aiutati a pregare per questa città e per tutte le città del mondo. Andiamo via dunque con urna grande speranza nel cuore, quasi un mandato missionario che ci impegna ad abitare i luoghi dove vive la gente con lo stesso amore di Cristo. Non sarà forse il modo migliore, quando torniamo a casa, di raccontare ciò che abbiamo visto e udito e che ha cambiato la mente e il cuore, rendendoci operatori di pace perché testimoni del Risorto? È la preghiera che mi fa guardare lontano, senza saltare nessuno volto e nessuna storia. Persino il giovane soldato israeliano, che questa mattina ci ha controllati nell’autobus mettendoci un po’ in agitazione perché armato, con il suo sorriso compiaciuto quando ci ha scoperti “napolitani” mi è sembrato portatore di un bell’augurio di pace: piccolo segno di un Dio che si nasconde in ognuno dei suoi figli e che ci ha oggi salutati con l’augurio pasquale dello SHALOM!