Pastorale della Salute

Gustare la vita, curare le relazioni-XXII Convegno nazionale di Pastorale della Salute

Gustare la vita: ci suona un pò strano, in un tempo che ci vede in affanno e alle prese con tematiche dense di agitazione e stress. E’ possibile oggi gustare la vita? No, è la prima considerazione che ci viene proposta, se l’affanno prende il sopravvento, e ci fa sentire solo il dramma della pandemia; sì, se accettiamo lo scandalo dell’imprevedibile, la invalicabilità del limite, insiti nella nostra natura umana, come ci dice Mons. Martinelli, Vescovo Ausiliare di Milano nell’introduzione ai lavori; e  comprendiamo che nella nostra cultura manca il senso della Provvidenza, che è senso della Storia, e che ci libera dal dramma di una coscienza isolata. E l’invito  è a non aver paura, a cercare il Regno di Dio, qui ed ora, anche nel mondo della cura, e nella costruzione della giustizia sociale, nelle relazioni fraterne, nell’impegno a custodire il Creato,  nell’accoglienza dei più fragili. Ed è cercare il Regno di Dio che può dare gusto alla vita: con i sensi materiali e spirituali, gustare la vita è anche curare le relazioni.

Questo virus si è presentato spesso con perdita di gusto ed olfatto: ma come fare perchè non produca  perdita anche del gusto della vita? Pensiamo a quell’immagine tanto cara a Papa Francesco, della Chiesa ospedale da campo, immagine che richiama  battaglie in corso, dove la priorità è salvare vite e curare ferite. Curare ferite: come l’isolamento, la paura, la morte di tanti che ci erano cari, e abbiamo scoperto che non basta la tecnica, c’è bisogno di relazioni ad accompagnare i momenti più difficili. Come non bastano i vaccini, grande sforzo della ricerca, se non comunichiamo bene la necessità di fidarci: e la campagna vaccinale ha rischiato di franare proprio sulla cattiva comunicazione, e sulla mancanza di fiducia. C’è bisogno di fiducia, come quando ci sediamo al ristorante senza andare a ficcare il naso nella cucina, e c’è bisogno di speranza, come quando volgiamo lo sguardo a Cristo e sappiamo di non essere abbandonati a noi stessi. Il gusto spirituale della vita è dono dello Spirito, ma è anche ricerca, nel modo di rapportarci alla realtà, scorgendo segni di bene; e sappiamo che le stesse cose appaiono diverse a chi ama e a chi non ama: stare nel bene aiuta a gustare la vita.

Gustare indica anche una modalità, indica misura. Gustare non è ingurgitare di tutto, implica il concetto di moderazione, di abbastanza, di ciò che può bastare. Gustare è trovare piacevole quello che di buono c’è intorno a noi. Il cibo è metafora, come sappiamo. Usiamo dire aver buon gusto, o essere di cattivo gusto, o provare disgusto, in riferimento a fatti e situazioni che nulla hanno a che vedere con la tavola. Anche sapere, sapiente, saggio, richiamano il “sapio”, aver sapore, e l’assaggiare.

Il teologo padre Pagazzi ci ha parlato del vino, nell’episodio delle nozze di Cana. Vino buono: il Vangelo è tutto contenitore di vino buono, ma non manca il richiamo al Calice amaro che Gesù non rifiuterà di bere. Ne approfitta per una bella provocazione: trasformarci da golosi in buongustai. Il goloso -ci dice- è fisso su una frequenza sola, per esempio il dolce; e noi nella vita tendiamo a fare lo stesso. Il buongustaio non si sottrae all’assaggio di tutti I gusti,  anche nell’amaro sa trovare una nota di cui dire bene. Il buongustaio sa gustare tutto il cibo della vita, ha il senso del gusto per l’amaro, l’insipido, il dolce, e riesce a trovare  nutrimento in ogni vicenda.

Talvolta viene meno il gusto della vita: spesso colpa dell’individualismo, che ci isola e ci fa pensare che la sicurezza stia in una porta blindata, e non nella cura delle relazioni. Imparare l’arte del buon vicinato e dell’amicizia che cura, è il consiglio di Mons. Delpini, Vescovo di Milano: e sappiamo quante persone anziane   grazie alla presenza di buoni vicini di casa conservano autonomia e opportunità di socializzazione. Ma anche le relazioni vanno gustate, non ingurgitate famelicamente, perchè anche inghiottire di tutto è segno, e sintomo, di un disturbo: del rapporto col cibo, ma soprattutto del rapporto con sè e con la propria vita. Parlare di gusto è anche parlare del suo contrario, il disgusto: il disgusto per la vita, che può nascondere una profonda paura di esistere e di sentirsi accolti ed amati per come si è. Oggi toccano punte di preoccupante incidenza i gesti di autolesionismo e di suicidio nei giovanissimi, grido di aiuto che non sempre si riesce a intercettare in tempo. Non è l’attrazione della morte, ci spiega il prof. Pompili, esperto della tematica del suicidio, ma è il dolore della vita, insopportabile da gestire e che, come nell’innamoramento ma con segno opposto, diventa pensiero fisso. Anche il bere, il fumare ed il consumare sostanze hanno in comune una illusione, una ricerca, e nascondono ferite profonde.

Noi viviamo, ci dice padre Tagliaferri, in una cultura mutilata di spiritualità: come curare le ferite dell’anima? Come educarci al rispetto reciproco, in questo tempo nel quale il web  spinge verso una totale disinibizione tossica? Ieri, ci dice il prof.Pasta, ci si preoccupava di educare il consumatore. Oggi va educato l’autore, educarlo al pensiero critico, all’etica della responsabilità, al  gusto di stare insieme, anche online, come amici e non come estranei, o, peggio, come nemici. E allora, giocando con le parole del tema del convegno, gustare le relazioni è curare la vita.  La vita, col suo diritto alla salute; e se appena un paio di anni fa il diritto che sembrava urgente tutelare, nella nostra società imperniata su economia e ricerca del piacere, sembrava quello di tutelare solo la vita degna di essere vissuta, oggi con la pandemia abbiamo capito che va protetta la vita in quanto tale, e la scelta di proteggere  gli anziani è un segno che ci fa ben sperare; se prima la battaglia per “staccare la spina” ai respiratori sembrava una doverosa battaglia civile, oggi proprio i respiratori sono stati drammaticamente al centro della lotta per la vita. Quest’anno ha ribaltato I diritti, ha osservato il dott. Tarquinio, direttore di Avvenire.

Quest’anno, come ha concluso don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio Nazionale di Pastorale della Salute, non è stato tempo sospeso, ci ha mostrato fatica e impegno, ma anche carenze e criticità. In campo sanitario ci ha mostrato che manca una formazione umanistica, una medicina delle relazioni che sappia creare alleanze e fiducia, che vada oltre le reazioni emotive, da cui la retorica dei medici eroi, subito sostituita dalla conflittualità tra curanti e curati. In questo tempo sono caduti diversi miti, e tra questi, il ricorso al modello di aziendalizzazione sanitaria, che si è mostrato in tutta la sua debolezza, scollegato come è dal reale bisogno dei cittadini, con l’impoverimento della rete degli ospedali, definanziati, accorpati o chiusi secondo logiche puramente di risparmio e non di servizio, in un sistema di riferimento incentrato su numeri e patologie e non sulle persone, e con una medicina territoriale che fa fatica ad incontrare i bisogni, specialmente di prevenzione e riabilitazione, mentre sono ancora tante le periferie esistenziali nelle quali la fruizione dei servizi sanitari essenziali viene impedita a chi non possiede strumenti culturali o economici per accedervi.

Perchè tutti possano gustare la vita bisogna poter superare le marginalità sociali, poter includere anche i fragili al banchetto della vita, poter contare su comunità sananti, che non è impegno da delegare ai soli operatori del mondo della cura, ma è mandato della Chiesa tutta, che sul modello del Buon Samaritano si china sull’uomo ferito, perchè nel suo orizzonte pastorale ci sia sempre  attenzione a salute e salvezza  dell’uomo, immagine e somiglianza di un Dio che si è fatto Pane per darci cibo di Vita.

di Lucia di Martino

E’ possibile seguire le relazioni del convegno, presenti al seguente sito: cliccando qui