Servizio Ecumenismo e Dialogo Interreligioso

Il mondo antico e il concetto del tempo

Il mondo antico ha davvero tante cose da insegnarci, anche a proposito del tempo. Se è vero, infatti, che le parole non rappresentano nella nostra mente dei suoni vuoti, ma sono invece entità profonde e ricche di significato, anche la declinazione del concetto di tempo necessita per natura di due termini: da un lato, il tempo come mera successione di avvenimenti; dall’altro, il tempo dell’Evento che irrompe ed è segno di trasformazione per chi riesce a coglierlo. Anche in questo la lingua greca è per noi maestra.

Ebbene, circa 34 anni fa, una comunità parrocchiale tedesca, nella città di Ahlen in Vestfalia, e precisamente la notte di Natale, sperimentò questo carattere profetico del Tempo. Mentre si celebrava la liturgia, al termine della stessa, due rappresentanti della comunità Musulmana della piccola cittadina, si presentarono con un mazzo di fiori per fare ai Cristiani gli auguri per la festa della nascita di Gesù. Tale gesto fu ricambiato da un applauso spontaneo da parte dei fedeli che stavano partecipando all’Eucaristia. Riflettendo, dunque, su questo episodio di qualche decennio fa, noi figli della tradizione Cristiana, qualche domanda ce la dobbiamo porre per forza di cose.

In primo luogo, l’immagine del Musulmano veicolata dai nostri media occidentali è quella di un fanatico fondamentalista aggressivo e pronto alla violenza nel nome del suo Dio. Ci siamo mai chiesti, con spirito critico, se per caso ci troviamo davanti a uno stereotipo considerevolmente lontano dalla realtà? Quante volte noi Cristiani siamo caduti (e cadiamo) vittime dei luoghi comuni? Anche noi ne siamo stati in qualche modo vittime e questo sin dalle origini delle comunità, quando l’Eucaristia fu scambiata per una sorta di rituale cannibalico dagli allora contemporanei dei nostri Padri nella fede. In secondo luogo, che conoscenza abbiamo, noi, ad esempio delle grandi feste dell’Islam? E delle nostre feste? Al di là del nome e della data, riusciamo a entrare nell’intimo significato salvifico delle nostre feste che pur celebriamo? In terzo luogo, siamo noi Cristiani consapevoli che, moltissime pagine del Corano, sono rispettosamente dedicate a Giovanni Battista, a Maria di Nazareth e allo stesso Gesù?

Stando alle testimonianze storiche, l’Islam primigenio, pur sempre in mezzo a storture e illecite mescolanze tra fede e volontà di dominio (dinamica che accompagna tutti i popoli di ogni tempo), presenta numerosi esempi e tentativi di dialogo tra Cristiani e Musulmani. Uno fra questi ebbe come protagonisti i membri cristiani della comunità yemenita di Najiran, un’oasi posta appunto nel sud della Penisola Arabica. La storia ci è raccontata da Ibn-Ishaq, il primo biografo di Maometto. Secondo il racconto, un gruppo di cristiani seguiti dal loro vescovo si recarono presso Maometto. In realtà, non si trattava di una visita di cortesia, visto che fra loro figuravano dei mercanti e considerato anche il fatto che, comunque, Maometto ne aveva chiesto la sottomissione all’Islam. Al rifiuto categorico dei Cristiani, Maometto li considerò popolo soggetto alla protezione (dhimma), dietro pagamento di un tributo. In tal modo, la comunità cristiana, sottomessa ai musulmani, vennero tutelati nel culto.

Tornando, però, al racconto di Ibn-Ishaq, e pur consapevoli della fatica di trovar tra gli uomini semi di dialogo, vediamo che tra Maometto e i Cristiani di Najiran si inizia a parlare di Dio, di Gesù e di Allah. Maometto non riesce a comprenderli nella loro fede. Del resto, in quanto melchiti (termine che deriva dall’arabo malik, il quale a sua volta traduce il greco basilikós, cioè “imperiale”), Maometto li vedeva come membri di un gruppo che credeva in un uomo, il signore e imperatore di Bisanzio; non nell’unico, solo e vero Dio. Inoltre, come riporta Magdi Allam in un suo saggio recente, Maometto percepisce questi Cristiani come contraddittori intorno alla figura di Gesù. Quando lui chiede loro chi fosse Gesù, la risposta non è univoca: chi dice “Dio”, chi “il Figlio”, chi il “Secondo della Trinità”. A noi, come ai Cristiani di allora, possono sembrare termini sinonimi, ma mettiamoci per un attimo nei panni di una cultura diversa con un’esperienza religiosa diversa dalla nostra. Non è facile capire per gli altri, così come spesso non lo è per noi. Il racconto di Ibn-Ishaq comunque procede. Giunge l’ora della preghiera. Non senza le vive proteste dei suoi compagni, Maometto permette ai Cristiani di pregare e celebrare l’Eucarestia nella sua Moschea.

Perché proprio questo racconto fra i tanti che l’aneddotica propone? In effetti, la storia della comunità di Najiran fa riferimento a un testo coranico chiave, utilizzato come sfondo di lettura di un documento molto importante che 138 Dotti del mondo Musulmano, il 13 ottobre 2007, inviarono al Papa e a tutte le diverse guide della Cristianità per cercare una “parola comune” che fosse in grado di creare le premesse per un vero dialogo fra Cristianesimo e Islam. Il passo del Corano è quello della Sura (capitolo) 3, 64, dove Maometto e i Cristiani yemeniti del tempo stringono un “patto” dove le “genti del Libro” vengono invitate “a trovare una parola comune”; cioè, “di non adorare che Dio e di non associare a Lui cosa alcuna, di non sceglierci tra noi padrone alcuno che non sia Dio”.

E’ questo un nucleo essenziale per una base comune che diventa lo spunto del Documento proposto dall’Islam ai Cristiani. E già il solo evento spiazza in un certo qual modo il nostro punto di vista, che ci porta a immaginare Musulmani che non vogliono alcun tipo di dialogo con noi. Il Documento, poi, rappresenta una novità straordinaria, in quanto impernia tutto il suo dire intorno al doppio Comandamento dell’amore per Dio e per il prossimo. I 138 “Dotti” si premurano di cercare quei passi della Bibbia e del Corano che, con formulazioni e traditio diverse, vogliono dirci che “l’unità di Dio, l’amore per Lui e l’amore per il prossimo formano un terreno comune su cui Islam e Cristianesimo (e anche Ebraismo) sono fondati”. Il Documento si conclude con un caloroso invito per “venire a una parola comune”, con la consapevolezza, certo, delle difficoltà per gli aspetti e i modi dissimili di concepire Dio; un po’ come le lingue romanze che, nel differenziarsi dal latino-madre, non possono alla fine negare la radice comune. Ed è bella la chiosa finale: “facciamo quindi in modo che le nostre differenze non provochino odio e conflitto tra noi. Gareggiamo gli uni con gli altri solamente in rettitudine e opere buone. Rispettiamoci, siamo giusti e gentili, e viviamo in pace sincera nell’armonia e nella benevolenza reciproca”.

Il Documento dei 138, come si conclude con questo suo dire forte, inizia in egual modo con un’affermazione a effetto: “Senza pace e giustizia fra queste due comunità religiose, che rappresentano oltre la metà della popolazione mondiale, non può esserci una pace significativa nel mondo”. All’epoca, non mancarono cautele e distinguo, come del resto sempre accade quando, per secoli distanti, a tal punto da ritrovarsi con fedi, culture e tradizioni diverse, dove la diversità spaventa perché variabile ignota, ci si ritrova poi di fronte l’un l’altro per ricostituire un legame, come fratelli e orfani vissuti per decenni sotto tetti diversi. Non sono del resto mancati teologi che, ad esempio, hanno dubitato della genuinità della proposta che veniva dal mondo Musulmano. Qualcuno addirittura ha sottolineato, a suo tempo, che il Documento era stato scritto con una certosina ricerca di quei passi coranici e biblici facilmente concordabili “alla luce dell’amore”; mentre altri passi del Corano non sembrerebbero così aperti e dolci nei confronti degli infedeli. Ma non si può dire lo stesso di alcuni passi Veterotestamentari?

Quel che resta, a ognuno di noi, però, è tendere l’orecchio; prestare attenzione al cuore di Dio che parla in ogni modo possibile. A noi la scelta di capirlo fino in fondo.

a cura di Raffaele Fontanella