Il vescovo e i giovani dialogano sul Vangelo della III Domenica di Pasqua

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Il Vangelo della III Domenica di Pasqua, che quest’anno cade il 4 maggio, è incentrato sui due discepoli di Emmaus e sul loro incontro con Gesù. Su questo passo del Vangelo riflettono insieme l’arcivescovo, mons. Francesco Alfano, e i giovani della Comunità Tabor.
 
La prima domanda è sulla prima parte del brano, dove l’attenzione è sui discepoli di Emmaus, che sono dispiaciuti e delusi. Quanti si allontanano dalle nostre comunità per cattivi esempi di testimonianza e incomprensioni?
“Questo racconta – evidenzia mons. Alfano – ci riporta alla nostra esperienza. Questi discepoli di Emmaus vivono un momento drammatico di disorientamento, di incomprensione, di delusione, hanno perso la speranza, anche se non del tutto. In questa apparente contraddizione è fotografata la condizione dell’uomo e dei giovani, sempre ma oggi in modo speciale. Questi momenti difficili ci sono, anche per chi fa un cammino di fede, perché siamo esseri umani, figli del nostro tempo e portiamo in noi il peso e la contraddizione, che la Bibbia chiama peccato, e si è tristi. E tanti non ce la fanno a sopportare, si allontanano, si chiudono o si ribellano, si pongono contro. È una tristezza che deve interrogare la Chiesa. D’altra parte, questo affiancarsi del Signore, ieri come oggi, anche attraverso di noi, ci rimanda alla possibilità che sempre è data a ogni giovane di ricominciare. Qui siamo dinanzi a un dono che ci viene fatto e che al giovane non deve mai essere tolto: di fare il cammino insieme, rileggendo la propria storia e mettendosi davanti al Signore con gioia”.
 
La seconda domanda riguarda il fatto che Gesù a un certo punto scompare dalla vista dei discepoli: cosa significa?
“Quante volte scompare il Signore dalla nostra vista, intesa non come vista della carne, ma dagli occhi del cuore? Mi pare – afferma l’arcivescovo – che questa indicazione del Vangelo sia molto importante: dobbiamo imparare a riconoscere la presenza di Cristo anche quando non l’avvertiamo più, perché Lui rimane con noi sempre. Occorre che noi apriamo il cuore alle modalità nuove della Sua presenza. Lo riconosciamo nella Sua parola, nell’Eucaristia, nella comunità, nella nostra vita in tutte le sue fasi, anche quelle che sembrano non avere nulla a che fare con il Signore. Tutto ciò che appartiene alla nostra esistenza è un segno del Suo amore per noi. Questo sottrarsi di Gesù alla vista dei discepoli non è un metterli in difficoltà; al contrario, è un aiuto che viene offerto loro ora che portano nel cuore un fuoco che non potrà essere spento più. Questo mi dà speranza perché quel fuoco è acceso nel cuore di tanti giovani: alcuni, come voi, lo hanno sperimentato in modo forte; altri sembrano essere lontani, ed è così nell’esperienza concreta, ma quel fuoco dentro di loro è acceso. Se avranno la possibilità di essere aiutati nel cammino, di fare un’esperienza intima come i discepoli di Emmaus, che accolgono a casa propria e quindi nella loro vita il Signore; se in una vita a volte apparentemente banale c’è un incontro profondo attraverso la testimonianza di amici credibili e gioiosi; se per tanti, per molti, per tutti questo c’è, allora quel fuoco potrà accendersi di nuovo”.
 
Nell’ultima domanda si evidenzia come i discepoli di Emmaus da tristi conoscono la gioia avendo incontrato Gesù, che non si può contenere: diventano così annunciatori del messaggio della Risurrezione. Volendo attualizzare tutto ciò, come possiamo anche noi essere annunciatori della Buona Notizia, a partire dalle nostre comunità e anche dalla Chiesa locale?
“Il passaggio dalla tristezza alla gioia – sottolinea il presule – non deve essere dimenticato: la gioia si comunica raccontando anche come ci si è arrivati, altrimenti è una gioia non facilmente accettata perché sembra superficiale o legata all’euforia del momento. La gioia della fede nasce dal percorso faticoso di chi porta la croce con il Signore, di chi si mette dietro a Gesù e, pur cadendo tante volte, si fa aiutare dal Maestro e dai fratelli a rimettersi in piedi. E perché non dobbiamo testimoniare questo? Non dobbiamo avere paura di raccontare, con rispetto e pudore, anche la nostra debolezza e fragilità: così quella gioia sarà più convincente perché è veramente il risultato di un cammino ed è il dono che ci viene fatto. Come le nostre comunità possono essere annunciatrici di gioia? Come ci ricorda Papa Francesco, non possiamo essere musei, tombe con mummie che non dicono nulla. Il volto del cristiano non può essere quello del Venerdì Santo in modo stabile: il Papa ce lo ricorda con forza e tocca un tasto a voi giovani molto caro. La gioia va condivisa in modo vero, contagioso, profondo e radicale attraverso scelte comunitarie, attraverso l’apertura che non esclude nessuno, attraverso l’attenzione alla situazioni più delicate e difficili, attraverso la sensibilità dei piccoli gesti e del coraggio di guardare lontano, senza chiudere gli occhi rispetto a chi ci sta accanto. Questa gioia è l’annuncio del Vangelo, è una gioia che può raggiungere il cuore di tutti e di cui tutti hanno bisogno. È la gioia della Pasqua: non possiamo tenerla per noi”.