Servizio Ecumenismo e Dialogo Interreligioso

I figli di Abramo uniti nella lotta per purificare il cuore

Con l’avvistamento del crescente lunare, oggi inizia il mese sacro di Ramadan dell’anno 1442 del calendario islamico. Per 1,8 miliardi di musulmani sparsi per il mondo, cominciano i giorni del digiuno, dall’alba al tramonto del sole, interrotto dal pasto dell’iftar. Questo si apre, secondo la tradizione, con un dattero, a imitazione del Profeta, e rappresenta un momento di convivialità e di rafforzamento del senso di appartenenza alla comunità dei credenti, la umma. Prima della pandemia di covid-19, le città di tutto il mondo arabo e dei Paesi a maggioranza musulmana, una volta scesa la sera, si riempivano di vita, con chioschi e ristoranti all’aperto presi d’assalto dai fedeli, uniti dal combattimento quotidiano contro di desideri del corpo.

Quest’anno tutto sarà più sobrio. Ed è l’occasione per i musulmani di tornare all’essenza di questo mese sacro, come per noi cristiani è stata la Quaresima appena passata. Da oggi, e fino al 12 maggio, l’Islam ricorda la rivelazione del Corano che, nella Surat II,185-185, prescrive ai credenti il digiuno. Il calendario ha voluto che il Ramadan di quest’anno cominciasse pochi giorni dopo la fine della Quaresima. Quasi che il nostro tempo, particolarmente bisognoso di penitenza, chieda all’umanità un periodo più lungo di preghiera e di lotta contro lo spirito del male.

Certo, le differenze tra la Quaresima e Ramadan sono evidenti. Ma, senza paura di sincretismi, è bello sottolineare quello che unisce i figli di Abramo, nostro padre comune nella fede. In particolare, questi “tempi forti” offrono ai credenti l’opportunità di allentare i lacci che ci tengono ancorati alle logiche del mondo, fino a spezzarli con la forza della preghiera, del digiuno e della carità. Noi cristiani siamo chiamati a tornare a essere catecumeni, cioè lottatori per vincere, con la grazia di Dio, le seduzioni dell’Accusatore, per arrivare all’incontro gioioso con il Cristo risorto nel giorno di Pasqua. Anche i fratelli e le sorelle musulmani sono impegnati in una lotta. Ramadan non è un periodo di preparazione alla celebrazione di una festa paragonabile alla Pasqua. Ma questo non toglie rilevanza al valore della lotta interiore per sentire più forte, insieme alla fame e alla sete del corpo, il bisogno di soddisfare la fame e la sete di Dio.

I musulmani chiamano jihad lo sforzo volto al raggiungimento di un obiettivo e al compiacimento di Dio. La vulgata giornalistica ha assegnato a questa parola il significato distorto di “guerra santa” per descrivere l’azione terroristica di quei gruppi di fanatici, che pretendono di servire Dio rendendosi invece protagonisti delle blasfemie più oscure. In realtà, nella tradizione islamica, il jihad indica prima di tutto la lotta contro il male e le passioni, che sono dentro di noi, per purificare il cuore e avvicinarlo all’Altissimo. Il termine è usato anche per descrivere lo sforzo di conservazione e di predicazione dell’Islam. Ma la dimensione più importante del jihad è certamente quella interiore.

E allora, all’inizio di questo mese sacro per i musulmani, è incoraggiante sapere che abbiamo dei fratelli e delle sorelle impegnati nella stessa lotta per stare nel mondo senza tuttavia appartenervi, con lo sguardo e il cuore rivolti a quel Dio che con Abramo, primo fra gli uomini, strinse la sua alleanza.

Ramadan mubarak!

di Giuseppe Manna per l’équipe ecumenica della nostra diocesi