Unità Pastorale 13 - Gragnano

Gragnano. Al Liceo don Milani, l’incontro con Agnese Moro

“Mio padre l’unica persona libera nei cinquantacinque giorni di prigionia”

Dal salotto di casa mia, io ho avuto l’impressione che mio padre sia stata l’unica persona libera in quei 55 giorni, anche se stava dentro una prigione, perché ha seguitato a ragionare, con la sua coscienza e con la sua libertà, su quelli che erano i valori che riteneva importanti per tutti noi”. È uno stralcio della straordinaria testimonianza che Agnese Moro, figlia dello statista democristiano rapito e assassinato dalle Brigate rosse nel 1978, ha regalato ai partecipanti all’incontro Moro racconta Moro, tenutosi lunedì 5 dicembre scorso presso l’Auditorium del Liceo don Milani di Gragnano (NA). A dialogare con Agnese, il magistrato Cetta Criscuolo e don Aniello Pignataro, promotore dell’iniziativa culturale in sinergia con l’Unità pastorale di Gragnano. In una sala gremita, alla presenza dell’Arcivescovo Mons. Francesco Alfano e di due fratelli di Raffaele Iozzino, l’agente di polizia che apparteneva alla scorta dell’onorevole Moro, Agnese, classe 1952, ti cattura con lo sguardo prima ancora che con le parole, parole che ascolti in silenzio, rapito dallo spessore che contengono, parole che continueresti ad udire per ore e che tutti, almeno una volta nella vita, dovrebbero ascoltare per lo straordinario valore che trasmettono.

Quello di Agnese è il racconto che una figlia fa del padre. Ci si sente davvero molto piccoli dinanzi a lei, la serenità con cui parla dei torti non ricevuti dal destino ma dalla volontà di altre persone, è disarmante. Una storia così drammatica che non è solo la sua storia ma è la storia di tutti noi, una storia uscita «dalle stanze di casa nostra, alle strade d’Italia» scrive nel suo libro Un Uomo Così (Edito da Rizzoli), lavoro nato dal desiderio di far conoscere ai suoi figli qualcosa del loro nonno, che non hanno potuto incontrare in questa vita, di farglielo vedere così come lo aveva visto lei, come le è rimasto nel cuore.

«È importante per me essere in un posto dove si ricorda la sua vita….» esordisce la Moro «perché quando una persona viene uccisa, insieme alla mancanza del cuore che batte e del suo respiro, è come se venisse annullata anche tutta la sua vita, perché quella persona diventa un caso giudiziario, un cadavere su un tavolo di un obitorio. È come se tutto quello che è avvenuto prima non avesse più nessuna importanza, come se non avessero mai avuto una vita». Un impegno dunque che Agnese porta avanti per far sì che la storia del suo papà non andasse perduta, che lui non fosse solo il “caso Moro” ma che potesse essere ricordato perché è esistito e ha fatto delle cose in questo Paese. Dalla FUCI agli anni della Costituente, il professore Moro è entrato in politica quando aveva già il suo posto nel mondo anche contro il parere della moglie che, lungimirante, lo aveva messo in guarda «attento perché per come sei fatto tu, va a finire male» (ricorda in una delle sue lettere dalla prigione).

Parla di un delitto fondatore Agnese, un delitto che fonda un diverso modo di atteggiarsi della politica e della democrazia rispetto ai cambiamenti in atto in quegli anni. È decisamente la “coscienza” il fulcro della vita di Aldo Moro, quella coscienza che ha consentito all’onorevole di vivere nella politica una vita libera, di fare le cose che riteneva giuste anche quando queste cose mettevano a rischio la sua serenità, la sua posizione, la sua incolumità.

«La verità è una parola molto impegnativa e puoi intenderla in tanti modi, può essere una cura come una malattia, anche una malattia mortale…» risponde sicura Agnese quando le si chiede quali sono le strade che ha percorso per raggiungere la verità. Lei non si è accontentata semplicemente di riscattare quanto, di diritto, la giustizia penale le avesse dato ma è andata ben oltre cercando per sé la sua giustizia nella verità umana che «alla fine per coloro che sono stati colpiti da una perdita così grave è una verità altrettanto importante di fronte alla quale bisogna sapere anche arrendersi, perché la verità, qualunque verità, è sempre infinitamente più piccola del torto che ci è stato fatto e del dolore che abbiamo patito e che seguitiamo a patire». Una verità umana che per la Moro si riassume in un’unica e sola domanda «come hai potuto? come hai potuto mettere una sveglia una mattina e dire: “mi devo alzare alle 7.30 perché alle 9 devo stare lì ad ammazzare qualcuno” come hai potuto tu che sei una persona come me…». E la verità umana Agnese l’ha ricercata proprio nella vita di quelle persone che hanno compiuto quei gesti atroci, è entrata in contatto con quella gente, si sono guardati negli occhi. Nel suo lungo percorso, Agnese ha realizzato che quei visi erano vecchi come il suo, che su ciascuno era scritta una storia di dolore, che il dolore non era solo il suo ma che «c’è un terribile dolore anche in chi ha compiuto azioni irreparabili e le ha compiute pensando di aiutare i poveri e di stabilire l’eguaglianza sociale ma che alla fine scopre di aver ucciso solo delle brave persone, soprattutto di aver ucciso delle persone. In questo sforzo di parlarsi c’è una verità più profonda. L’umanità non si perde perché qualcuno ha fatto qualcosa di irreparabile, le vite possono ricrescere buone, le loro e le mie e tutti insieme possiamo ritornare a vivere…». E allora quel «come hai potuto?» fa un passo avanti e trova risposta e compimento nel versetto del vangelo di Luca che Agnese riporta in epigrafe del suo libro “…perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34) e, in qualche modo, questo, acquieta l’anima.

di Ilaria Verderame

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